QUANTA PLASTICA MANGIAMO?
Tutti ci poniamo questa domanda, alla luce dell’allerta ambientale in atto. La risposta deve far riflettere…e correre ai ripari.
Ogni settimana ingeriamo con il cibo l’equivalente in microplastiche di una carta di credito.
L’allarme arriva da una ricerca commissionata dal Wwf e condotta dall’università australiana di Newcastle.
Ma cosa sappiamo su questo materiale e come ci possiamo proteggere? Le microplastiche sono minuscole particelle di plastica che derivano dalla decomposizione di oggetti più grandi ( come bottiglie, bicchieri, contenitori, ecc.) dovuta alla luce, al freddo, al caldo, al vento, al contatto con le onde, al contatto con i sassi eccetera. Alcune particelle , invece, vengono rilasciate direttamente nell’ambiente da cosmetici e prodotti per l’igiene personale.
Esistono due tipi di frammenti dispersi nell’ambiente: le microplastiche (frammenti inferiori ai 5 mm) e le nanoplastiche (dimensioni comprese tra 1 e 100 nanometri, dove un nanometro è un millesimo di millimetro).
Entrambe stanno suscitando molto scalpore perché si accumulano nell’ambiente e sono presenti ovunque: nell’acqua, nell’aria, sulla terra e negli animali che qui vivono, quindi possono passare nell’organismo dell’uomo.
Il timore è che possano causare infiammazione, che possano fungere da veicolo per i metalli pesanti e altri inquinanti se ingerite, che possano danneggiare cellule e tessuti causando danni al materiale genetico fino a favorire, talvolta, la formazione di tumori.
La domanda che sorge spontanea è: in quali alimenti si trovano più facilmente le microplastiche e come è possibile evitarle o almeno limitarne l’assunzione? I pesci e i molluschi sono sicuramente i cibi più a rischio, perché le microplastiche si concentrano soprattutto nei mari e vengono scambiate da questi animali per cibo. Ma non si trovano solo negli animali commestibili, ma anche nell’acqua che beviamo e in alcuni alimenti “insospettabili”, per esempio la birra e il sale, come sottolineato anche dalla ricerca del Wwf e anche nel miele, perché vengono trasportate dalle api o perché derivano dal processo di lavorazione o dai sacchetti di plastica usati per fornire zucchero alle api.
Tutti ci poniamo questa domanda, alla luce dell’allerta ambientale in atto. La risposta deve far riflettere…e correre ai ripari.
Ogni settimana ingeriamo con il cibo l’equivalente in microplastiche di una carta di credito.
L’allarme arriva da una ricerca commissionata dal Wwf e condotta dall’università australiana di Newcastle.
Ma cosa sappiamo su questo materiale e come ci possiamo proteggere? Le microplastiche sono minuscole particelle di plastica che derivano dalla decomposizione di oggetti più grandi ( come bottiglie, bicchieri, contenitori, ecc.) dovuta alla luce, al freddo, al caldo, al vento, al contatto con le onde, al contatto con i sassi eccetera. Alcune particelle , invece, vengono rilasciate direttamente nell’ambiente da cosmetici e prodotti per l’igiene personale.
Esistono due tipi di frammenti dispersi nell’ambiente: le microplastiche (frammenti inferiori ai 5 mm) e le nanoplastiche (dimensioni comprese tra 1 e 100 nanometri, dove un nanometro è un millesimo di millimetro).
Entrambe stanno suscitando molto scalpore perché si accumulano nell’ambiente e sono presenti ovunque: nell’acqua, nell’aria, sulla terra e negli animali che qui vivono, quindi possono passare nell’organismo dell’uomo.
Il timore è che possano causare infiammazione, che possano fungere da veicolo per i metalli pesanti e altri inquinanti se ingerite, che possano danneggiare cellule e tessuti causando danni al materiale genetico fino a favorire, talvolta, la formazione di tumori.
La domanda che sorge spontanea è: in quali alimenti si trovano più facilmente le microplastiche e come è possibile evitarle o almeno limitarne l’assunzione? I pesci e i molluschi sono sicuramente i cibi più a rischio, perché le microplastiche si concentrano soprattutto nei mari e vengono scambiate da questi animali per cibo. Ma non si trovano solo negli animali commestibili, ma anche nell’acqua che beviamo e in alcuni alimenti “insospettabili”, per esempio la birra e il sale, come sottolineato anche dalla ricerca del Wwf e anche nel miele, perché vengono trasportate dalle api o perché derivano dal processo di lavorazione o dai sacchetti di plastica usati per fornire zucchero alle api.